Il Vescovo emerito della diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo condannato per diffamazione contro la Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme dal Tribunale di Roma

Con Sentenza n. 8198/2023, depositata in Cancelleria il giorno 5 luglio 2023, la Quarta sezione Penale del Tribunale Ordinario di Roma ha pronunciato la sentenza di condanna nei confronti di Mons. Brandolini Luca, Vescovo emerito della Chiesa Cattolica Romana (Diocesi Sora- Cassino- Aquino-Pontecorvo) in ordine ai seguenti fatti di reato:

Art.595, co.3 c.p, perché, comunicando con più persone, tramite intervista rilasciata al quotidiano on line “La Fede quotidiana”, offendeva la reputazione della Chiesa Universale della Nuova Gerusalemme, avendo usato le seguenti espressioni “avevo subodorato la presenza anche di infiltrazioni mafiose. Giusta la scomunica . . Ho percepito e subodorato che potessero nascondersi interessi economici di organizzazioni malavitose o in odore di mafia, comunque non limpidi … era ed è una vera setta contraria alla dottrina cattolica che strumentalizza il sacro per finalità non appropriate…

A seguito dell’imputazione coatta ordinata dal GIP nell’anno 2019, la prima udienza del 21/01/2020 ha sancito l’apertura del dibattimento, conclusosi il 24/05/2023, giorno in cui “in esito alla condotta istruttoria dibattimentale il Tribunale ritiene che possa essere senz’altro affermata la penale responsabilità dell’imputato per il reato a lui ascritto nell’editto d’accusa”.

Nella Sentenza pubblica si legge che:

La vicenda processuale trae le mosse dalla pubblicazione, avvenuta in data 8 giugno 2016, di un articolo sulla rivista online “La fede Quotidiana” nell’ambito del quale il Monsignor Brandolini Luca rilasciava dichiarazioni sulla Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme, commentando positivamente la intervenuta scomunica nei confronti della comunità religiosa da parte del Papa ed affermando di avere già in precedenza “subodorato la presenza di infiltrazioni mafiose”. Brandolini Luca, in qualità di Vescovo della diocesi di Sora-Aquino e Pontecorvo, si era occupato di istruire una apposita commissione incaricata di effettuare indagini sulla suddetta comunità, interessando della questione la Congregazione per la Dottrina della Fede. Nell’articolo in oggetto, dal titolo “Il vescovo che ha studiato il caso Gallinaro: è una setta, ci sono interessi mafiosi”, nel quale era stato quindi chiamato a rilasciare un commento in merito all’intervenuta scomunica da parte della Chiesa Cattolica, il Brandolini alludeva alla sussistenza di “interessi economici di organizzazioni malavitose o in odore di mafia, comunque non limpidi in seno alla comunità religiosa in discorso, giungendo infine a definire quest’ultima “una vera setta contraria alla dottrina cattolica che strumentalizza il sacro per finalità non appropriate“. L’articolo pubblicato sul sito “lafedequotidiana.it” riceveva nel corso dei giorni successivi ulteriore diffusione, per mezzo di una intervista rilasciata dall’odierno imputato sul medesimo quotidiano in data 11/06/2016, nel corso della quale lo stesso circostanziava ulteriormente le proprie allusioni avverso la p.o., dichiarando che “Resto della idea, che confermo, che ho subodorato, e preciso questo termine, possibili infiltrazioni mafiose. Non muovo accuse a persone specifiche e per affermare questo mi baso su indizi che tengo per me e che ho esternato a chi di dovere“.

A seguito di quanto riportato il Giudice del Tribunale afferma che:

Ebbene, indubitabilmente le modalità espressive adottate nell’articolo in esame sono suscettibili di avere portata diffamatoria: non vi è alcun dubbio infatti che le affermazioni sopra riportate, nelle quali la comunità religiosa veniva tacciata di essere asservita a organizzazioni malavitose o in odore di mafia, e di avere asservito quindi la sua attività di culto ad illeciti interessi di lucro siano oggettivamente idonee a ledere l’altrui reputazione e, in particolare, che i fatti sintomatici di atteggiamenti collusivi attribuiti ai vertici dell’ente religioso risultino specificamente lesivi della reputazione, in qualità di soggetti che ricoprono incarichi di rappresentanza, al cui funzionalizzazione dell’attività svolta ad interessi non economici ma eminentemente morali e leciti è valore immanente all’attività stessa. La giurisprudenza ha, infatti, da tempo chiarito che sono offensive non solo le espressioni obiettivamente tali, ossia in grado di offendere qualsiasi persona in quanto titolare dei beni dell’onore e della reputazione, ma anche quelle che sono in grado di acquisire tale valenza in relazione a particolari circostanze, come la personalità delle parti e l’ambiente in cui li fatto si svolge (cfr. ex multis Cass., sez. V, sent. 17.3.1978)”.

Inoltre, nel corpo della Sentenza, il Giudice “Ritiene che le espressioni poc’anzi attenzionate non presentino il primo e fondamentale tra i presupposti individuati dalla giurisprudenza (a partire dalla nota sentenza del 18.10.1984 n. 5259 della Corte di Cassazione, Sez. I Civile) per applicare l’esimente in questione: si ritiene che, per le modalità con cui le accuse (non supportate a ben vedere da fatti eventualmente riportati) sono state formulate nella nota, sia venuto meno lo stesso requisito della verità dei fatti narrati, non essendo emerso dall’istruttoria che l’ente religioso sia effettivamente intinto da infiltrazioni criminale e/o mafiose, né che la comunità oggetto delle dichiarazioni di cui al presente giudizio sia una “setta […] che strumentalizza il sacro per finalità non appropriate“. La circostanza della intervenuta scomunica da parte della Chiesa Cattolica, a ben vedere, avrebbe offerto all’imputato la possibilità di affermare, a ragione e secondo verità, la sola e ben più cauta evidenza in base alla quale la dottrina propugnata dal culto della Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme non collima pienamente con quella propria della Chiesa Cattolica, nella quale dunque non può pienamente identificarsi. Ciò, beninteso, non estende il paradigma della verità, e dunque non costituisce oggetto di scriminante, alla ulteriore implicazione argomentativa che l’imputato vuole trarre: la circostanza che il culto, non pienamente coincidente con l’insegnamento della Chiesa Cattolica, persegua per ciò stesso interessi economici e illeciti a discapito dei fedeli. Per quanto sopra specificato, non sarà necessario, nel prosieguo, procedere alla verifica degli ulteriori elementi della pertinenza e continenza, necessari ai fini dell’operatività della scriminate del diritto di critica”.

Il contenuto diffamatorio della nota pubblicata sul sito de “La Fede Quotidiana”, e dunque dotato ex se di inevitabile eco, è reso evidente dalle espressioni suggestive adottate dal Brandolini, il quale di converso non offre alcun supporto fattuale in grado di asseverare le gravi accuse di connivenza. Il contenuto accusatorio della nota, peraltro, risulta ulteriormente confermato – per relationem – dalla successiva intervista rilasciata dall’odierno imputato alla medesima rivista in data 11/06/2016, nella quale il Brandolini confermava le affermazioni dell’articolo in oggetto. Le affermazioni risultano essere sottilmente allusive, in modo tale da assumere connotati diffamatori, in quanto sostanzialmente non veritiere, e da essere piegate allo scopo che l’autore si era prefisso, ossia la denigrazione dell’attività svolta dalla comunità religiosa locale della Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme, dando luogo, considerate nel loro complesso, ad un attacco personale diretto e ingiustificato. Posto, dunque, che “il carattere diffamatorio di un articolo deve essere sempre apprezzato in un’ottica globale e non atomistica” (cfr. Cass. pen. sez. V, sent. del 5.11.2004), non può che ritenersi l’intero esposto come diffamatorio nei confronti della persona offesa, costituita parte civile”. …

Ed invero, dalle risultanze emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale, è possibile inferire come le allusioni di complicità con organizzazioni malavitose e mafiose mosse dal Brandolini ai danni della comunità della Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme abbiano sortito un effetto suggestivo nell’ambiente di riferimento, rivelando la propria attitudine lesiva (“si dice vox populi, vox Dei, in questo caso la voce del Vescovo è considerata vox Dei, quindi si è passato direttamente alla vox Dei, senza passare dalla vox populi“) (cfr. trascrizione verbale di ud. del 02/10/2020, pag. 15)”.

Inoltre, il Giudice ritiene “che all’esito dell’istruttoria dibattimentale sia stata altresì raggiunta la prova circa la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputato. In particolare, l’elemento psicologico richiesto dalla fattispecie contestata, e configurabile in capo al Brandolini nel caso di specie, è il dolo, essendo costui l’autore delle dichiarazioni diffamatorie indicate nel capo di imputazione e dovendo quindi rispondere ai sensi dell’art. 595, IlI comma, c.p.. Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che nel delitto di diffamazione è sufficiente il dolo generico, consistente nella “volontà cosciente e libera di propagare notizie e commenti con la consapevolezza della loro attitudine a ledere altrui reputazione” (cfr. Cass., sez. V, sent. n. 21133/2018), specificando altresì che ai fini della configurabilità del predetto delitto il dolo può manifestarsi anche nella forma del dolo eventuale: basta cioè che l’agente “faccia uso, consapevolmente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive” (cfr. Cass., sez. V, sent. n. 8419/2014). Orbene, il dolo in capo al Brandolini risulta dalla metodologia adoperata nella redazione della nota diffamatoria, consistente nell’attenta selezione degli elementi idonei ad ingenerare negli utenti, anche ad una lettura disattenta, un immediato e diretto collegamento tra la Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme e i suoi esponenti da una parte e le infiltrazioni mafiose dall’altra, passando per il dato fattuale (non rivelatore, di per sé, delle implicazioni probatorie datene) della scomunica intervenuta nel 2016 nei confronti dell’ente religioso medesimo”.

Tale univoco quadro probatorio non appare minimamente incrinato dagli elementi a discarico raccolti nel corso dell’istruttoria. In particolare, nulla hanno aggiunto le dichiarazioni del teste Di Giacomo Filippo, volte a precisare i contorni e le tensioni locali relative alla comunità religiosa in oggetto, nonché a evidenziare il ruolo del Brandolini, il quale “è un vescovo che è stato a Sora per venti e passa anni che è l’unica autorità morale di una zona dove non c’è manco più lo Stato, quasi niente, che dà voce a quello che la gente andava a dire, andava a lamentare, e d’altronde diciamo così, è anche il ruolo che gli riconosce il concordato” (cfr. trascrizioni verbale di ud. dell’08/02/2023, pag. 8). Tali dichiarazioni non appaiono certamente idonee a scalfire il solido compendio probatorio consolidatosi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, considerato che nessuna di tali circostanze, vale ad elidere il disvalore penale della condotta diffamatoria posta in essere dal Brandolini ai danni della persona offesa”.

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara Brandolini Luca colpevole del reato a lui ascritto;

Visto l’art. 538 c.p.p., condanna l’imputato al risarcimento dei danni subiti dalla costituita parte civile;

Visto l’art. 12 della Legge 8 febbraio 1948, n. 47, condanna l’imputato al pagamento di una somma a titolo di riparazione;

Visto l’art. 541 c.p.p., condanna l’imputato alla rifusione delle spese processuali relative alla esperita azione civile.




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